Verso Sud a cura di Associazione Culturale Zerynthia Palazzo Doria Pamphilij, Valmontone 2000
Dedicato alle ragazze e ai ragazzi che in questa sala hanno ballato
L’opera trae inspirazione dalle vicende storiche legate allo stesso spazio che la ospita, la Sala del Principe, nel Palazzo Doria Pamphilij a Valmontone (Roma); in particolare, durante la Seconda Guerra Mondiale, quando nell’edificio si rifugiarono 400 abitanti che avevano perso la loro abitazione a causa dei bombardamenti, la sala nei giorni di festa fu utilizzata dai più giovani come sala da ballo. L’artista ha collocato una decina di sensori sulle pareti di quello spazio, collegandoli ad altrettanti altoparlanti disposti nelle vie limitrofe all’edificio. Ogniqualvolta uno spettatore si fosse spostato all’interno della sala, gli altoparlanti avrebbero emesso un motivo musicale scelto dagli anziani della città, risalente a quel periodo della loro gioventù. Il risuonare delle canzoni di un tempo avrebbe raccontato alla comunità che in quel momento qualcuno si “muoveva” in quel luogo che tanto era stato emblematico della vita di quei periodo. Come in numerose opere dell’artista, l’incontro con i cittadini è funzionale alla formulazione di un commento alle dinamiche del sistema dell’arte contemporanea – in questo caso, l’indifferenza spesso manifestata dagli artisti nei confronti degli spazi nei quali sono invitati a intervenire. “Sono andato a cercare le persone del posto che mi hanno fatto scoprire la storia di quel palazzo, l’uso che ne avevano fatto negli anni del dopoguerra come ospiti sfollati. Nella stanza che mi era stata assegnata, queste persone, allora giovani, si ritrovavano il sabato sera per ballare e rigenerare la propria quotidianità. Abbiamo recuperato insieme dei dischi dell’epoca e, attraverso un sistema di diffusione Hi-Fi, dei sensori e degli altoparlanti, quando qualcuno entrava nella stanza la musica si diffondeva nella città. I motivi delle canzoni arrivavano ovunque, rivolte sopratutto a quelle persone che nel palazzo avevano temporaneamente abitato, ma non alla sala espositiva dove non vi erano altoparlanti. Si udivano perché c’era un rimbalzo sonoro, ma tutto era rivolto al “fuori” verso la città, come un dono a chi aveva vissuto lì in attesa della ricostruzione.. E’ un lavoro che ha a che fare con il “vuoto” dell’architettura e il suono era il materiale più adatto per tutto questo. Ma il proposito di intervenire negli spazi pubblici senza invaderli, sovrapponendo un mio progetto a una memoria collettiva, era il tema centrale: mi interessava questa posizione critica rispetto al sistema dell’arte.” [Achille Bonito Oliva, “Alberto Garutti”, in Enciclopedia della parola. Dialoghi d’artista. 1968-2008, Skira Editore, Milano, 2008, pp. 396-405]